Siamo tutti un po’ clochard..

Mi capita spesso, praticamente ogni giorno, di incontrare persone di ogni genere; vivo in una città che mi permette di sbattere contro realtà differenti senza bisogno di cercarle chissà dove.

Pavel, avrà circa 40 anni eppure ne dimostra almeno 56, non si capisce quanto è alto poiché sta sempre accasciato al suolo; sembra voglia a tutti i costi contare ogni singolo sampietrino del centro di Praga. Non so come abbia fatto a finire così, non so nemmeno da quanto non metta nello stomaco un pasto decente ma sembra stanco. Tiene fra le mani il suo piccolo bicchiere bianco di carta e ha la testa bassa, credo aspetti di sentire il suono di quei pochi spicci che qualcuno gli lancerà per pietà o solo perché si sa che le monetine in tasca spesso danno fastidio.

„Scrivere di un senzatetto è 

affidarsi alla scabrosità di una possibilità che ti appartiene. Perché gli artisti, spesso e volentieri, sono barboni fortunati. Ce l’hanno fatta a non finire all’addiaccio, ma conservano i tratti disturbati e l’inquietudine dell’erranza, vagano con gli occhi, sentenziano sul mondo, hanno ossessioni, riti. Ogni giorno corrono il rischio di perdersi, di non trovare più la strada del ritorno.“

—  Margaret Mazzantini scrittrice italiana 1961

Quanta saggezza.

Non è difficile capire dove sia

clochardcasa per lui. Pavel non ha una casa, ha un vecchio cartone bagnato come materasso e qualche giornale preso di nascosto dal camion della carta a fargli da coperta. L’ho seguito, è stato più forte di me; si è regolarmente fermato in tutti i bidoni alla ricerca di un pezzo di pane gettato da chi era troppo sazio per finirlo o magari da qualcuno a cui è caduto a terra e si sa, quando il cibo cade per terra si butta. Anche chiedendogli qualcosa non ci capiremmo, parliamo due lingue diverse io e Pavel, italiano e ceco; credo sappia che lo sto seguendo perché ogni tanto si ferma e mi guarda corrugando la fronte e serrando le mandibole come a dirmi: “Ti piace lo spettacolo? hai visto abbastanza?”

No, non mi piace. Non mi piace per niente, non lo trovo giusto, anche se…. se mi fermo a pensare: sto esattamente facendo l’errore che fanno quelli che critico tanto. Traggo conclusioni senza avere tutti i dati in fila per poter analizzare. 

Vedo ogni giorno passare gente pronta a prendere a calci il bicchierino di turno di qualche Pavel inginocchiato alla città; alcuni di loro lo fanno senza nemmeno girarsi a chiedere scusa ma almeno sono coerenti altri invece sono ancora peggio, si girano con quella faccia schifata perché magari quel Pavel puzza perché si è pisciato addosso e sotto il sole emana un odore nauseante, e gli lanciano 5 kc.

Pavel si è fermato di nuovo a guardarmi. Entro in un mini-market e invece che prendere una birra ne prendo due perché sicuramente è meglio il vetro del tetra pak a cui lui è ormai abituato e compro anche un panino per lui, stasera niente avanzi. Non so se vi è mai capitato ma vi assicuro che è una sensazione meravigliosa sedersi accanto a qualcuno di sconosciuto sul suo letto portatile, bere qualcosa insieme, godersi il silenzio di una città che sa parlare da sola, sorridersi, raccontarsi i problemi in lingue differenti perché l’importante non è capire, ma liberare la mente. La bellezza è spogliarsi di ogni cosa e sentirsi liberi di respirare la stessa aria. 

Astinenza di parole..

Sì, temo che il mio corpo sia in astinenza di parole.

Logorroica, amo definirmi tale, una di quelle persone che non riescono a stare senza parlare, chiedere, discutere, senza la possibilità di scegliere il silenzio; invece ora il silenzio è tutto ciò che ho perché in seguito ad un operazione alla gola non riesco a parlare. Tonsillectomia, nulla di troppo emozionante.

Il silenzio è generalmente una scelta, come quando sei arrabbiata o ci rimani male e allora stai in silenzio perché vorresti fosse colui con cui sei arrabbiata ad illuminarti con qualche parola passata lì per caso, magari in grado di farti sorridere e dimenticare l’arrabbiatura o magari solo il pretesto per cominciare a litigare; e diciamocela tutta, quelle parole dopo quel tipo di silenzio sono sempre le più taglienti, le più dure ed a volte le più vere.

Ora mettetevi nei miei panni; come si fa a litigare senza poter parlare? e come si fa a domandare? a ridere? a fare una conversazione che non diventi un monologo a senso unico? come si fa a godere in silenzio? 

Non l’ho ancora capito e spero che la parola mi torni a breve ma nel frattempo mi godo l’altra faccia della medaglia. Osservare ed ascoltare diventa più bello. 


Quando hai un terrazzo che si affaccia sul parco in una domenica di sole non hai bisogno di parole… Quattro anziani, un tavolino, l’ombra di un albero e un torneo di burraco hanno riempito il mio silenzio:

A: “Te sta zet, che tci ancoura un murgantoun” .  ( Stai zitto che sei ancora un bambino piccolo con le candele al naso)

B:” Zuga e sta zet! Ad Zugador”. ( Gioca e sta zitto. Giocatore dei miei stivali )

A:” Al chèrti agli é cume la mà, lì vò sampre bèn mè fiol piò stoppid”. ( É come la mamma che vuole sempre più bene al figlio più stupido. Detto a giocatore di carte non bravo, ma fortunato. )


Quei vecchietti con i loro reumatismi, le loro litigate, gli insulti e qualche bestemmia volata qua e la hanno passato un’altra domenica insieme a ridere senza bisogno di troppe cose o di troppi discorsi ed hanno fatto ridere anche me. Domenica prossima ore 16 sono stata invitata al torneo. 

Il punto non sono quei quattro vecchietti, il punto è: ci rendiamo conto di quanto siamo succubi di parole superflue? di quanto il 60% delle parole che diciamo non servano veramente? 

Ci riempiamo la vita di parole inutili, di occasioni perse per paura di parlare o perché invece non escono le parole giuste; esistono situazioni in cui una parola può salvare un rapporto o rovinarlo, quelle maledette parole di troppo. Le parole sono un mondo a cui mai rinuncerò ma forse a volte lo si può accantonare.

Forse per imparare ad ascoltare di più serve una tonsillectomia o forse solo un po’ di intelligenza in più..

CURIOSITA’: Camera anecoica.

(476 parole) 

Pentole e fornelli..

Ricordo l’odore del sugo salsiccia e piselli che inondava casa già alle 8 di mattina, il rumore dei cucchiai che sbattevano nelle ciotole e l’acqua del rubinettoIMG_1993 che non smetteva di scorrere perchè quando non hai la lavastoviglie lavare subito i piatti è legge. Quando ero piccola, nel periodo estivo, passavo spesso 10 o 15 giorni a casa di mia nonna, Iride, piccolina con un cuore enorme, i capelli sempre perfetti e puliti ogni mattina con l’acqua di rose ed una vitapassata davanti ai fornelli. Essendo una curiosa cronica spiavo sempre qualsiasi cosa preparasse, da un semplice insalata al sugo più difficile in assoluto e per innamorarmi di quei gesti e di quegli odori non c’è voluto nulla. Amo cucinare, è un forma di terapia per l’anima, nella cucina ci vuole pazienza, costanza, non puoi mettere su un sugo e poi dimenticartene. IMG_1976Cucinare vuol dire prendersi cura di qualcuno un po’ come dire “ti stavo pensando.” , ricordo la ciotola enorme di fragole che mia nonna preparava la mattina presto e solo la sera quando si era riempita di buonissimo e dolcissimo succo potevi mangiarle, era sempre la stessa ciotola bianca con i ricami blu e quel piatto di plastica sopra a coprirle; non andare a fregarne un cucchiaio ogni 5 minuti era una vera e propria lotta.

“Lo sai perché mi piace cucinare?”
“No, perché?”
“Perché dopo una giornata in cui niente è sicuro, e quando dico niente voglio dire n-i-e-n-t-e, una torna a casa e sa con certezza che aggiungendo al cioccolato rossi d’uovo, zucchero e latte l’impasto si addensa: è un tale conforto!”
(Giulia Child)

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